1921

"Cronache di quel tumultuoso e rovente 1921.....e poi il Milite Ignoto"

di Luigi INFUSSI

Analogamente ad altri Paesi europei, la Prima Guerra Mondiale “portò in dote” all’Italia disastrose condizioni economiche e conseguentemente rivolte popolari. Il bilancio della guerra fu anch’esso tragico: circa 650 mila morti, 470 mila mutilati e tre milioni di reduci.
Sul fronte dell’economia il Paese era letteralmente in ginocchio, dissanguato dalle spese belliche, con interi territori devastati e un’industria che stentava a riconvertirsi e riprendere il suo corso in tempo di pace. L’inflazione galoppava, il costo della vita era quadruplicato e folle esasperate saccheggiavano i negozi di generi alimentari. A farne le spese erano, tra gli altri, i reduci, spesso e ingiustamente relegati ai margini della vita civile.
La democrazia liberale si stava lentamente sfaldando sull’onda del malcontento popolare.A conti fatti, in termini esclusivamente territoriali, l’Italia aveva guadagnato dalla guerra poco più di quanto le era stato offerto nel 1915 dall’Austria-Ungheria per rimanere neutrale. L’economia internazionale fu segnata da caratteri di estrema anormalità, di grave incertezza, di frequente turbamento, senza che la “pace” fosse effettivamente instaurata. Tutti gli stati, sia ricchi che poveri, si abbandonarono a una emissione sregolata di carta moneta, creando una serie di distorsioni, aumenti dei prezzi e tasse più o meno occulte che generarono investimenti spesso errati con conseguenti fallimenti e crisi cicliche. Tuttavia si fece strada una promettente e più diffusa sensazione della solidarietà economica tra i vari Paesi, da mettere in atto  con la convenienza di sforzi comuni per il riassetto economico e conseguentemente anche politico e sociale. La comunità scientifica tornò a interessarsi a quel delicato periodo che intercorse tra la conclusione del primo conflitto mondiale e l’inizio degli anni venti. La questione tornata di stretta attualità, attorno alla quale si è sviluppato un vivace dibattito, è quella della violenza; in sostanza si è finalmente arrivati alla consapevolezza di come quegli anni non si possano comprendere senza passare attraverso una narrazione dei traumi che sconvolsero la società italiana e che crearono delle fratture di difficile ricomposizione.
Il primo gennaio del 1921 era un sabato: il giorno prima, a Fiume, Gabriele D’Annunzio aveva firmato la resa, dopo le giornate che il poeta abruzzese stesso definì il “Natale di sangue” (24-29 dicembre). Un conflitto che provocò 56 morti e 200 feriti, tra  cui molti civili, e il 6 gennaio Trieste e Zara furono ufficialmente annesse all’Italia. Nel corso di quell’anno, quella che ormai aveva tutti gli aspetti di una guerra civile infuriò con violenza maggiore che nell’anno precedente. Si sviluppò, così, un anno “tumultuoso e rovente”, purtroppo ancora di tantissime lacrime e sangue, di un’Italia con disoccupazione in crescita, sei volte più dell’anno precedente, caratterizzato da scontri ideologici, scioperi, conflitti, agguati, attentati, spedizioni punitive, con elezioni politiche, tragedie,eccidi e disastri, e con ancora in atto la pandemia di "spagnola".  Continuarono gli scioperi, le occupazioni delle fabbriche e dei cantieri, le giuste "rivendicazioni" dell’A.N.M.I.G. (1), con una lotta non più occasionata dagli scioperi e dalle dimostrazioni, ma voluta e cercata dai sempre più numerosi elementi sovversivi. La riconversione dell’economia di guerra a una produzione di “pace”, lenta e senza una vera guida governativa, provocò una “dissoluzione” senza via d’uscita. A rendere la situazione drammatica furono i debiti di guerra, con le banche in sofferenza (nonostante gli ingenti profitti fatti con la guerra) e con gli speculatori, arricchiti, alla ricerca di nuove scommesse con gli imprenditori. La crisi registrò in Italia la catastrofe di due grandi società metallurgiche, l’ILVA e L’Ansaldo, e di uno dei maggiori istituti di credito, la Banca Italiana di Sconto che comportò pesanti perdite ai suoi clienti.
Quotidianamente, purtroppo, la situazione mieteva anche vittime fra guardie regie, carabinieri, ex-combattenti, impiegati, studenti, operai, mentre numerosissimi perirono per malattie e povertà. Vi fu un drammatico rincaro dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità. I pochi prodotti disponibili venivano razionati: ogni persona aveva diritto a quantità minime di farina, di zucchero, di latte condensato e li riceveva con i punti delle “tessere annonarie”. L’alternativa era solo la borsa nera, un’alternativa rischiosa e terribilmente costosa. L’inflazione galoppava ed i prezzi salirono alle stelle!!!! La tessera annonaria era una tessera nominale che veniva consegnata a ogni cittadino per ottenere i viveri previsti dal razionamento imposto dalla guerra, e comparve a partire dal 1° novembre 1917: ogni cittadino aveva quotidianamente diritto a 250 grammi di pane, 90 grammi di pasta e 40 di riso. In seguito, si estese la distribuzione di carne bovina, olio, grassi animali, burro, formaggi. Contemporaneamente si inaugurò una campagna propagandistica per la limitazione dei consumi. In tutte le città, vennero organizzate conferenze alla popolazione per spiegare come “viver bene mangiando poco”. Tale propaganda interessò anche le scuole, dove ai ragazzi veniva illustrata ad esempio l’utilità di coltivare un piccolo orto (2).

 

<< Note:

(1) L’Associazione Nazionale tra Mutilati ed Invalidi di Guerra – A.N.M.I.G. fu fondata il 29 aprile 1917 e riconosciuta giuridicamente con decreto del prefetto di Milano in data 25 giugno 1917. Fu solo dopo la 1^ G.M., che lasciò centinaia di migliaia di mutilati e invalidi di guerra (circa 470.000), che con la legge 12 luglio 1923 furono accolte le aspirazioni dei mutilati di guerra e fu disciplinata giuridicamente anche la figura dell’invalido di guerra.
(2) Il guadagno medio annuo è di lire 2800. Un operaio guadagna circa 300 lire al mese, un impiegato 650 ed un professore 850. In media ogni italiano mangiava 22 kg di carne all’anno. Quattro milioni di sigarette venivano fumate ogni giorno. L’88% delle case non avevano un bagno, ma erano servite da lavatoi condominiali ad ogni piano.

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Il termine della Prima Guerra Mondiale fu per molti l’ultimo atto del risorgimento nazionale con il ricongiungimento della “Venezia Giulia”. Questa denominazione fu adottata in forma semiufficiale per designare tutti i territori ad est del Veneto precedentemente posti sotto sovranità austriaca e annessi all’Italia. Questi comprendevano, oltre a tutto l’ex Litorale Austriaco (tranne il comune istriano di Castua e l’isola di Veglia, andati al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), alcune zone della Carniola (i distretti di Idria, Postumia, Villa del Nevoso e alcuni villaggi del Tarvisiano) e della Carinzia (la maggior parte della Val Canale), nonché in certi contesti la città dalmata di Zara. Il Tarvisiano e ad alcuni comuni della bassa friulana ex-austriaca (Cervignano, Aquileia, ecc.), furono però incorporati nella prima metà degli anni venti nella Provincia di Udine (anche se solo a partire dal 1925 iniziarono ad apparire in tutte le mappe ufficiali o semiufficiali e nelle rilevazioni statistiche come facenti parte di tale provincia), e vennero in tal modo a perdere, anche nell’immaginario collettivo, le proprie connotazioni giuliane, mentre Fiume, annessa al Regno d’Italia nel 1924 passò a formar parte a pieno titolo della Venezia Giulia. Il 5 giugno del 1921 il Regno d’Italia mise in circolazione una serie di francobolli detta appunto Annessione della Venezia Giulia per commemorare tale avvenimento. Nel corso dell’VIII Congresso Geografico Italiano (marzo-aprile 1921), fu votato all’unanimità un ordine del giorno – presentato dal geografo friulano Olinto Marinelli – col quale si chiedeva che il nome di Venezia Giulia (o altro equivalente) avesse “d’ora innanzi a comprendere, oltre ai territori redenti, anche l’intero territorio friulano”. Il nome proposto dal congresso fu “Regione Giulia”, ritenendo quindi superata la denominazione ascoliana (il nome è stato ideato nel 1863 dal linguista goriziano Graziadio Isaia Ascoli, linguista, glottologo, glottoteta e docente italiano, senatore del Regno d’Italia nella XVI legislatura- dal 10 giugno 1886 e si concluse il 22 ottobre 1890-).. A partire da questa determinazione, il nome Venezia Giulia andò quindi a identificare, per alcuni geografi, le province del Friuli (Udine), Gorizia, Trieste, Istria (Pola) e la Liburnia (Carnaro). A Trieste, Domenica 20 marzo 1921,  si proclamò solennemente l’annessione della Venezia Giulia all’Italia. Furono presenti le massime autorità dello Stato. Il re Vittorio Emanuele, impossibilitato a venire, mandò, “un fervido saluto augurale”. Ancora oggi viene usato il termine Triveneto o Tre Venezie: L’uso moderno di parlare di tre Venezie, l’una detta “propria” e comprendente le provincie d’oltre Mincio dell’ex Lombardo-Veneto (esclusa quella del Friuli) divenute poi provincie del Regno; l’altra, denominata Venezia Giulia ed abbracciarne, oltre il Friuli, tutto il territorio più ad oriente, fino al nuovo confine d’Italia; la terza chiamata Venezia Tridentina e corrispondente alla parte cisalpina del Tirolo già austriaco, cioè alla attuale provincia di Trento.Sempre nel mese di gennaio la situazione nell’Italia settentrionale e centrale si fece talmente grave che il Ministro dell’Interno, Giovanni Giolitti, ordinò la revoca delle licenze di porto d’armi nelle province di Modena, Bologna e Ferrara e prescrisse ai prefetti di provvedere all’immediata consegna delle armi e delle munizioni da parte dei cittadini. L’ordine provocò molte proteste nei centri urbani, mentre alla Camera venivano presentate ma inascoltate mozioni sui conflitti sociali. Il 3 Febbraio ricorse il 50° Anniversario di Roma Capitale d’Italia. Il 3 febbraio di cinquant’anni prima,nel 1871, infatti, veniva approvata la Legge n.33 (entrata in vigore il 19/02/1871), tenendo fede a quanto affermato da Camillo Benso conte di Cavour, allora 1° ministro, circa 10 anni prima, il 27/03/1861. Il Conte nel suo discorso pronunciò quella frase che sarebbe rimasta a spiegare, da allora in poi, i rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica: “Libera Chiesa in libero Stato”, frase però non sua, ma di Charles de Montalembert (1810-1870) politico, giornalista, storico e filosofo francese. Quel cinquantenario passò in sordina, anche perché la “questione romana” era ancora lontana dalla soluzione. Infatti, solo l’evoluzione della situazione politica interna indusse la Chiesa ad assumere un atteggiamento meno intransigente, che culminò, qualche anno prima, nel 1913 con il patto Gentiloni.
La sistemazione giuridica dei rapporti tra Chiesa e Santa Sede si realizzò, solo più tardi,durante il fascismo, con la firma l’11 febbraio 1929 dei Patti lateranensi. Nell’Europa Orientale, il  18 Marzo 1921, venne siglata la pace di Riga, che pose fine alla guerra sovietico-polacca e la contestuale  frontiera permanente tra la Polonia a la Russia sovietica. Per la cronaca, qualche giorno prima e più precisamente il 12 marzo,  nacque a Torino Giovanni Agnelli, figlio di Edoardo e di Virginia Bourbon del Monte dei Principi di San Faustino. Il nonno era il senatore Giovanni Agnelli, tra i fondatori della FIAT. Il 7 aprile con un decreto firmato in pari data, venne deciso lo scioglimento della Camera: le elezioni furono indette per il 15 maggio (3). Anche in Italia iniziarono le trasmissioni dei primi programmi radiofonici, regolati dall’URI poi EIAR.  I giorni che precedettero le elezioni, come prevedibile, furono segnati da rivolte e sangue un po’ ovunque lungo lo Stivale, a: Pisa, Lecce, Brescia, Taranto, Treviso, Padova, Bologna, Milano, Pavia, Piacenza, Alessandria, Mantova Napoli, Pordenone, Viareggio, Carrara, Cittadella, Palazzone e nelle Maremme. Il 5 maggio, per le signore, Coco Chanel presentò il celebre profumo Chanel n°5 creato per la celebre Maison de Ernest Beaux. Nello stesso anno, La Gucci,  fu fondata a Firenze dall’imprenditore e stilista  Guccio (Giovanbattista Giacinto  Dario Maria)  Gucci. Le elezioni politiche del 15 maggio si svolsero in Italia in un clima di intimidazioni e violenze. Secondo un bilancio del ministero dell’Interno, solo nel corso della domenica elettorale vi furono in Italia 38 morti e 104 feriti. Ciò nonostante, le elezioni non diedero risultati molto diversi da quelle del 1919 e conseguentemente le conflittualità rimasero in atto. Le elezioni chiusero la prima fase del dopoguerra, quella decisiva, all’interno della quale fu sperimentato con successo l’uso della violenza, quale strumento principe per la conquista della piazza e la sottomissione dell’avversario politico. Da allora, la percezione dei luoghi e dei modi della politica fu completamente sovvertita.  Nel periodo estivo, si ebbero gli “eccidi” di Sarzana(SP) il 22/7, nel Grossetano il 25/7 e a Modena il 26/9. La guerra seppur vinta, non aveva portato alcun beneficio, nessuna certezza  alla popolazione che era pericolosamente disorientata, stremata e affamata, bisognava tornare a stringersi sotto la “Nostra Bandiera”, per non vanificare il sacrificio di sangue di oltre un milione di italiani, tra morti e mutilati. Così, il 4 agosto, il Parlamento approvò all’unanimità e senza dibattito la legge (4) per la sepoltura in Roma, sull’Altare della Patria, della salma di un soldato ignoto caduto in guerra»  (L. 11 agosto 1921, n. 1075). L’iniziativa aveva preso l’avvio il 24 Agosto dell’anno precedente, dalle pagine del periodico «Il Dovere» (testata di riferimento dell’Associazione Unione Nazionale Ufficiali e Soldati), a firma del fondatore del sodalizio, generale Giulio Douhet (5), in qualche modo tra le file e proveniente dall’Arma del Genio,  che propugnò di onorare i Caduti italiani della Grande Guerra mai identificati, con la creazione a Roma di un monumento al Milite Ignoto.

 

<< Note:

(3)Furono le prime elezioni a cui parteciparono i votanti dei territori neoannessi della Venezia Tridentina e la Venezia Giulia. I deputati vennero aumentati da 508 a 535, eletti in quaranta collegi elettorali. Avevano diritto al voto tutti i cittadini di sesso maschile maggiorenni, ovvero che avessero compiuti i 21 anni. L’affluenza fu pari al 58.39% degli aventi diritto.
(4) Il relativo disegno di legge fu presentato alla camera italiana nel 1921 e ne fu relatore l’onorevole De Vecchi, che affermò fra l’altro: "Il disegno di legge che il Parlamento discute è frutto del sentimento italico, dolce ed ardente ad un tempo. Deve essere rivendicata ai nostri uomini d’arme la priorità del proposito di trasportare solennemente a Roma i resti di un caduto ignoto, perché ivi ricevano i più alti onori dovuti a loro e a seicentomila fratelli".
(5) Giulio Douhet, (Giulio Felice Giovanni Battista all’anagrafe, Caserta 30 maggio 1869- Roma 15 febbraio 1930), a vent'anni frequentò l'Accademia Militare di Modena, da cui uscì col grado di sottotenente dei bersaglieri. Si iscrisse anche al Politecnico di Torino , laureandosi in ingegneria, e ben presto chiese di transitare nell' Arma del Genio. Promosso maggiore, anche per le sue innate capacità, dal 13 novembre 1913,  venne nominato Comandante del Battaglione Genio Aviatori, presso l’aeroporto di Torino Mirafiori,  che organizzò in squadriglie perfettamente autonome dal punto di vista organizzativo e logistico, dotandole di aviorimesse smontabili, automezzi e carri officina.   Nel 1920, con il grado di Colonnello in congedo, fondò l’Unione Nazionale Ufficiali e Soldati e, sulla scorta di analoghe iniziative già attuate in Francia e in altri Paesi coinvolti nella "Grande Guerra", propose di erigere monumenti ai caduti della "Grande Guerra" in ogni città d’Italia.

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Anche lo Sport avrebbe potuto fare al caso per ricompattare la Nazione,   difatti il 4 settembre ebbe luogo la prima edizione del Gran Premio d’Italia di automobilismo (6),  disputatasi sul Circuito di Montichiari (BS): vinse il pilota Jules Goux insieme al suo meccanico su automobile Ballot equipaggiata con pneumatici Pirelli. Ma in quell’anno bisognò spargere altro dolore e altro sangue. Una gravissima calamità tramutatasi in una tragedia, avvenne la sera del 25 ottobre, con il disastro del forte Sant’Elena in provincia di Savona: a causa di alcuni incendi che si erano sviluppati lungo i fianchi della montagna, saltò in aria il deposito di armi ed esplosivi (7), conservati in due piccoli edifici al riparo all’interno della struttura. La deflagrazione fu talmente violenta che i detriti e le macerie ricaddero su di un’area vastissima che arrivava fino alle località di Spotorno e Zinola, ad alcuni chilometri di distanza. Il mattino dopo si contarono 25 vittime, di cui 18 civili (quasi tutti a Bergeggi) e 7 militari che presidiavano il forte. I feriti furono oltre 250. Così come gran parte delle strutture abitate anche la chiesa del paese di Bergeggi subì gravi danni alla copertura. Il 29  ottobre ebbe finalmente inizio l’ultimo viaggio  del Milite Ignoto: si compì sulla linea Aquileia-Venezia-Bologna-(linea Porrettana)-Firenze-Roma. La velocità moderatissima del treno consentì alle folle inginocchiate lungo il percorso di esprimere sentimenti spontanei di venerazione. La cerimonia ebbe il suo epilogo nella Capitale il 2 novembre. "Tutte le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il Re alla testa, e tutte le bandiere di tutti i reggimenti mossero incontro al Milite Ignoto, fu portato a S. Maria degli Angeli". Sulla porta del tempio era stata apposta questa epigrafe: "Ignoto il nome - folgora il suo spirito - dovunque è l’Italia - con voce di pianto e d’orgoglio - dicono - innumeri madri: - è mio figlio". Il 4 novembre, dopo un corteo silenzioso per le vie della Capitale, fu tumulato nel sacello posto all’Altare della Patria. La scorta d’onore al feretro, fu composta da 12 decorati di medaglia d’oro al valor militare. Da quel giorno il Milite Ignoto è diventato un simbolo di identità nazionale, quella di "...Un Popolo fatto di contadini, operai, gente comune che anelava alla libertà e che voleva dimenticare la Grande Guerra. L’anonimato della salma ha saputo trasformare il dolore del singolo in dolore collettivo, nel lutto di tutti, riuscendo finanche a trovare riposo e memoria, nell’Altare della Patria". La cerimonia, di quel giorno, e dei giorni immediatamente precedenti, cui partecipò tutto il Popolo Italiano  ebbe il valore di un’apoteosi. Circa un mese dopo il 6 dicembre 1921. A Londra venne firmato il trattato anglo-irlandese, che ponè  fine alla guerra irlandese per l’indipendenza, durata dal 1919 al 1921, che Istituì lo Stato libero d’Irlanda, una nazione indipendente con ventisei delle trentadue contee irlandesi, ad opera del 1° ministro inglese Lloyd George, tuttavia lo stato rimase all’interno dell’Impero Britannico.

Il 7 dicembre a Milano, si inaugurò l’Università Cattolica. Le cronache di cento anni fa e dei successivi furono complesse, tanto ruggenti, violente e sfavillanti quanto inquiete. Il clima generale di incertezza, determinato dagli effetti del conflitto, dalla difficile transizione economica e dalle rilevanti trasformazioni sociali e culturali,   rappresentarono il termometro di un’epoca convulsa e complessa, nella quale possiamo ritrovare dirette corrispondenze con la nostra.

 

<< Note:

(6) Il Gran Premio d’Italia del 1921, un colossale “automotoaerodromo”.
Fu riservato a vetture con cilindrata massima di tre litri e alla gara quindi  presero il via solamente sei vetture: le tre Ballot (azzurre) francesi e le tre Fiat (rosse). Le Ballot avevano alla guida Goux (Fra), Chassagne(Fra) e De Palma(Ita),e le Fiat erano con Wagner, Sivocci(Ita) e Bordino(Ita). Davanti a duecentomila spettatori, al Re Vittorio Emanuele III, al presidente del Consiglio Bonomi, i sei bolidi presero il via al mattino, alle otto a distanza di un minuto uno dall’altro, per complessivi trenta giri, di un circuito tra Brescia e Montichiari. Il Re, avendo visto che la vittoria sarebbe andate alle vetture francesi,  abbandonò il circuito prima della fine della gara, quindi non premiò la vettura francese: le Ballot si erano dimostrate più affidabili, ma alla Fiat fu rimproverata la mancanza di una strategia di gara  e una certa carenza nella messa a punto.  Il giro più veloce fu realizzato da Bordino Piero, con il tempo di 6’54"2 alla media di 150,37 km/h. Contemporaneamente si alzarono in volo dal vicino aeroporto di Ghedi gli aerei impegnati nella competizione  del Gran Premio Internazionale d’Italia degli Aeroplani, che affrontarono però il circuito in senso opposto rispetto a quello delle vetture. A leggere i resoconti sui giornali la gara degli aerei non fu assolutamente seguita perché era assolutamente incomprensibile agli spettatori a terra, per cui in effetti faceva solo della scena, ma non ebbe un grosso successo, per tantissimi motivi, tra i quali i "freschi ricordi" di guerra. Comunque,  si trattò di una manifestazione davvero epocale poiché, oltre alle competizioni delle automobili, si svolsero anche lo spettacolare Gran Premio per gli aeroplani ed il Gran Premio delle Nazioni per le motociclette. Fu così che i motori, cento anni fa, dominarono le scene di quello che si può definire un colossale “automotoaerodromo”, per quegli anni, unico nel suo genere. Organizzatore e promotore dell’evento fu  Arturo Mercanti, cittadino bresciano e direttore dell’Automobile Club di Milano. L’anno seguente, nel 1922, per questioni logistiche ed organizzative, Mercanti spostò l’evento sportivo a Monza, dove in soli 110 giorni fu costruito l’Autodromo Nazionale, dove ancora oggi si corre Il Gran Premio d’Italia. I duecentomila spettatori crearono un sacco di problemi perché oltretutto ci fu, dicono i giornali dell’epoca, la più grossa concentrazione di automobili che si era mai vista in Italia. Si crearono quindi  delle code micidiali per cui occorsero fino a sette ore per abbandonare il circuito per raggiungere la vicina Brescia. Questo dà l’idea della situazione di caos che si era creata a Brescia in quella giornata. Su un giornale dell’epoca si lesse che Valletta, allora già ragioniere in Fiat, arrivò a Brescia in treno, e che al box della Fiat insieme con l’Ingegner Fornaca era presente il Senatore Agnelli,  per seguire la gara di Bordino, figlio del custode dello stabilimento di Torino.


(7) Esplosero 18 tonnellate di polvere da sparo e dinamite che erano conservate in due casermette inglobate internamente al forte. Fortunatamente la polveriera vera e propria, in pratica il deposito maggiore, per fortuna, era custodito ad una profondità di 11 metri, ricavata nel sottosuolo internamente alle mura. Alle ore 22.00, quella sera, il cielo e i paesi vicini s’illuminarono e il tremendo boato, come quello di mille cannoni, fu sentito sino a Genova. Il quotidiano La Stampa dell’epoca, riportava quanto segue:" La prima impressione degli abitanti della regione, fu che si trattasse di una scossa di terremoto e nella tema che essa si ripetesse le case furono abbandonate. Tutti gridarono in preda al terrore, si riversarono per le strade. Fu una confusione indescrivibile. La gente si rese conto dei fatti: comprese che si trattava di un’esplosione al Forte Sant'Elena."

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Gen.B.(ris.) Luigi INFUSSI

 

 

 

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